Malattia di Alzheimer

La malattia di Alzheimer può manifestarsi in ogni periodo della vita adulta, ma la sua incidenza aumenta con l’avanzare dell’età: la maggior parte dei pazienti ha più di 60 anni, mentre sono pochi quelli che ne hanno meno di 50. In Italia, colpisce circa il 5% della popolazione con più di 65 anni, prevalentemente donne (anche in relazione alla maggiore sopravvivenza della popolazione femminile).

La malattia di Alzheimer è la più comune e severa patologia degenerativa del cervello, caratterizzata da un progressivo decadimento delle funzioni cognitive (in particolare, della memoria e del linguaggio), associato all’invecchiamento.

Deve il suo nome ad Alois Alzheimer, il medico che per primo la descrisse nel 1907, individuando gli elementi neuropatologici che, ancora oggi, sono distintivi per la patologia, ancorché privi di una soddisfacente spiegazione eziopatogenetica: le placche senili e gli agglomerati neurofibrillari.

Fino alla metà del ‘900, la malattia di Alzheimer è stata considerata una forma di demenza rara.
Attualmente, il suo impatto sociosanitario è estremamente rilevante, soprattutto a causa dell’allungamento della vita media e forse, in parte, come conseguenza del cambiamento di stile di vita e di fattori ambientali, che restano tuttavia da precisare.

Cause

Tutte le forme di demenza sono legate alla presenza di un danno cerebrale che si accumula gradualmente nell’arco di decenni e inizia a rendersi evidente quando viene superata una certa “soglia”, ossia un limite oltre il quale le strutture neurologiche ridondanti e ancora sane presenti nel cervello non sono più in grado di compensare le funzioni cognitive venute meno a causa delle lesioni.

Le perdite neurologiche che si osservano nel cervello che invecchia non sono tutte patologiche: in parte, sono legate al naturale avanzare dell’età e si verificano anche in persone sane che non svilupperanno mai nessuna forma di demenza.
Quest’ultima si instaura quando, al fisiologico impoverimento cerebrale si sommano fattori lesivi aggravanti quali, per esempio, condizioni patologiche di varia natura (rottura di un aneurisma, ictus, produzione di composti tossici endogeni ecc.) o traumi accidentali, in particolare forti colpi alla testa, specie se ripetuti come nel caso dei pugili (che, spesso, proprio per questa ragione sviluppano forme di demenza molto precoci).

L’intensità e la velocità con le quali si instaura e progredisce il declino neurologico e cognitivo non sono prestabilite, ma possono variare molto da persona a persona in funzione della combinazione dei fattori patologici e traumatici e delle caratteristiche genetiche individuali.
Nello specifico della malattia di Alzheimer, non è ancora stato possibile risalire alla causa prima.

Ormai da alcuni anni è stato osservato che, nel cervello delle persone che soffrono di malattia di Alzheimer, la morte delle cellule nervose non è generalizzata o casuale, ma si verifica in specifici punti della corteccia cerebrale, in corrispondenza dell’accumulo di placche di beta-amiloide, ossia di ammassi di una proteina “tossica” per le cellule nervose. Inoltre, è stato osservato che nei neuroni che degenerano a causa della malattia si accumulano ammassi/grovigli di un’altra proteina chiamata Tau.

Nella stragrande maggioranza dei casi, la patologia insorge in modo sporadico (nel senso che chiunque può esserne interessato), tuttavia esiste anche una forma familiare di malattia di Alzheimer, responsabile di meno dell’1% di tutti i casi, caratterizzata da esordio più precoce; il tipo di trasmissione genetica di questa variante non è del tutto chiaro, ma è probabile che i fattori in gioco, genetici e non, siano molteplici.

Sintomi

Da un punto di vista clinico, la caratteristica principale della malattia di Alzheimer consiste nel progressivo declino della memoria, in particolare di quella a breve termine, ovvero della possibilità di immagazzinare nuove informazioni.
La capacità di richiamare ricordi più lontani, archiviati nella memoria a lungo termine, tende invece a essere preservata fino alla fase più avanzata della malattia.

Per questa ragione un malato di Alzheimer può ricordare perfettamente episodi della sua giovinezza, ma avere serie difficoltà a raccontare che cosa ha fatto il giorno prima. All’esordio, i pazienti spesso non si rendono conto del peggioramento della memoria, perché tendono a “rimuovere” l’idea del disturbo, che viene in seguito completamente ignorato, oppure a usare, più o meno consapevolmente, “escamotage” per compensare i deficit di memoria iniziali.

Fin dalle prime fasi della malattia compaiono, inoltre, disorientamento spazio-temporale e disturbi delle funzioni esecutive: i pazienti tendono a sentirsi spaesati anche in luoghi noti, a non ricordare quale giorno od ora sia.
Successivamente, compaiono anche disturbi del linguaggio e diventa sempre più difficile l’uso di oggetti comuni, come il pettine, lo spazzolino da denti o le posate. Con il progredire della malattia, si fanno via via più evidenti le alterazioni del comportamento e della personalità, con comparsa di agitazione, instabilità dell’umore, irritabilità, rabbia o apatia.

Diagnosi

La diagnosi iniziale della malattia di Alzheimer continua a essere di tipo clinico e si basa sulla raccolta della storia del paziente (anamnesi), sull’osservazione del suo stato di salute generale e degli atteggiamenti comportamentali, e su una serie di prove e test neuropsicologici eseguiti nel contesto di un’accurata visita neurologica.

A supporto della diagnosi clinica, esami neuroradiologici come la TAC e la risonanza magnetica (RM) cerebrali svolgono un ruolo importante nella valutazione dei disturbi della memoria e sono indicati per la valutazione di routine della malattia di Alzheimer.

In passato, il loro ruolo era soprattutto quello di escludere la presenza di altre patologie organiche all’origine dei disturbi neurologici valutati clinicamente, mentre oggi, il perfezionamento delle tecniche di imaging e dei software di analisi avanzata sta permettendo di migliorare la diagnosi e di renderla più precoce: un aspetto fondamentale non soltanto per dare risposte precise e tempestive ai pazienti e ai loro familiari, ma anche per poter trarre i maggiori benefici dalle terapie disponibili.

Tra gli stili di vita

Essendo la causa sostanzialmente ignota, le terapie attualmente disponibili per contrastare la malattia di Alzheimer hanno perlopiù lo scopo di attenuare i sintomi associati al declino cognitivo nella fase iniziale o intermedia, migliorando la memoria, il comportamento e l’orientamento e aiutando, così, il paziente a mantenere un certo grado di autonomia un po’ più a lungo.

I farmaci utili in questo senso sono soprattutto gli anti-acetilcolinesterasici, che agiscono aumentando la concentrazione cerebrale dell’aceticolina, uno dei neurotrasmettitori principalmente implicati nei meccanismi di memorizzazione.
Un altro farmaco disponibile è la memantina, che ha indicazioni nelle forme medie e avanzate della malattia. Questi farmaci riescono a migliorare le funzioni cognitive generali dei pazienti per qualche tempo, ma non rallentano la progressione della malattia.

Altri medicinali che hanno un ruolo in una fase più avanzata di malattia sono quelli in grado di attenuare i disturbi comportamentali (in particolare, l’agitazione e l’aggressività o, talvolta, l’apatia), che possono creare notevoli problemi di gestione ai familiari e alle persone che devono occuparsi dell’assistenza, oltre che agli stessi pazienti. In questo caso, si tratta di farmaci di derivazione neuropsichiatrica, soprattutto ad azione sedativa.

Oltre che con i medicinali, dai quali non ci si deve aspettare di ottenere miglioramenti eclatanti, il malato di Alzheimer può essere supportato con terapie di riabilitazione cognitiva, che consistono in una serie di tecniche finalizzate al miglioramento dell’autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane fondamentali (vestirsi, lavarsi, svolgere semplici compiti domestici ecc.) e al potenziamento delle capacità cognitive residue.
Per farlo, si cerca di insegnare al paziente modalità d’azione alternative a quelle abituali (non più praticabili in quanto legate a funzioni neurologiche degenerate) e di sollecitare in modo mirato le funzionalità ancora integre.

Il piano terapeutico e le specifiche attività svolte non sono standardizzate, ma vengono definite di volta in volta in relazione alle caratteristiche e alle potenzialità di ogni singolo paziente.

La riabilitazione cognitiva può essere effettuata sia nel corso di ricoveri di 3-4 settimane sia in regime ambulatoriale e la sua efficacia è testimoniata dalla sua diffusione sempre più estesa, anche in reparti di lungodegenza e residenze per anziani (RSA).
Purtroppo, neanche in questo caso ci si deve aspettare miracoli.

Analogamente ai farmaci, questo approccio è in grado di determinare miglioramenti apprezzabili soprattutto quando viene applicato nella fase iniziale della malattia e ha lo scopo di permettere al malato di vivere il più a lungo possibile a casa propria, evitando un eccessivo carico di lavoro per familiari e caregiver: un aspetto particolarmente importante nel caso della malattia di Alzheimer perché si è visto che l’ospedalizzazione protratta o l’inserimento in strutture residenziali tende ad accelerare il declino psicofisico e intellettivo dei pazienti.

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