Malattia di Parkinson

La malattia di Parkinson è una patologia neurodegenerativa del sistema nervoso centrale legata all’invecchiamento, che colpisce circa il 2,5% delle persone con più di 70 anni e che si caratterizza principalmente per il tremore a riposo alle braccia e blocchi ciclici del movimento muscolare (soprattutto, alle gambe), con graduale compromissione dell’autonomia.

Esistono anche forme “giovanili” della malattia di Parkinson, che iniziano più precocemente, già dopo i 50 anni, generalmente meno frequenti e per le quali è spesso più facile individuare una causa specifica, come l’intossicazione con sostanze esogene o l’assunzione di alcuni farmaci.
In questo caso, si parla di “parkinsonismi“, in quanto queste varianti non coincidono esattamente con la malattia di Parkinson e ne condividono soltanto in parte l’eziopatogenesi, ma sono caratterizzate da sintomi e caratteristiche anatomopatologiche sostanzialmente indistinguibili.

Cause

Nonostante intense ricerche e la formulazione di varie ipotesi, a oggi, il meccanismo iniziale che innesca lo sviluppo della malattia di Parkinson resta da determinare.
Certa, invece, da alcuni decenni è la base anatomopatologica della malattia, legata alla distruzione di un nucleo di cellule nervose presenti al centro del cervello.

Il danno maggiore si verifica a carico della cosiddetta substantia nigra (SN), localizzata nel mesencefalo: la regione del cervello che collega il tronco cerebrale e il midollo spinale alle strutture cerebrali superiori, come il talamo e la corteccia cerebrale.
I neuroni della SN sono le uniche cellule cerebrali in grado di produrre la dopamina, un neurotrasmettitore fondamentale per la trasmissione degli impulsi nervosi preposti alla regolazione e al coordinamento dei movimenti.

Quando la dopamina è insufficiente, vengono meno gli “automatismi“, vale a dire tutti i movimenti volontari che si eseguono in modo automatico, e il mantenimento del tono muscolare.

Quando la maggior parte della substantia nigra è stata distrutta, non viene più prodotta una sufficiente quantità di dopamina e iniziano a manifestarsi i sintomi tipici della malattia di Parkinson.
Le cellule della substantia nigra non sono le uniche a subire danni a causa della malattia. Anche i neuroni direttamente connessi alla SN, non ricevendo più un’adeguata stimolazione da parte della dopamina, vanno incontro a un processo di graduale degenerazione e morte.

In aggiunta, è stato notato che nel cervello delle persone affette da malattia di Parkinson tendono ad accumularsi agglomerati chiamati “corpi di Lewis” formati da diverse sostanze, che si ritiene possano avere un’azione tossica sulle cellule produttrici di dopamina. In particolare, le ricerche si stanno concentrando su una proteina che si accumula nei corpi di Lewis, chiamata alfa-sinucleina.

La carenza di dopamina può anche essere legata all’azione di farmaci usati nel trattamento di patologie psichiatriche, come la schizofrenia, che possono provocare parkinsonismi di tipo reversibile.
Queste sostanze non distruggono i neuroni che producono la dopamina, ma impediscono alla dopamina di agire in modo efficace. In questi casi, l’interruzione della terapia farmacologica è sufficiente a far regredire i sintomi del parkinsonismo.

Per le forme di malattia di Parkinson a insorgenza precoce, non legate agli effetti di farmaci o sostanze, sono state formulate ipotesi di un’origine genetica (o, quanto meno, di fattori genetici predisponenti), basate su studi di casi familiari multipli e in gemelli e, più recentemente, sull’analisi biomolecolare e genetica di banche di cervelli di pazienti deceduti.
Tuttavia, a oggi, non sono stati individuati determinanti genetici significativi, inducendo a ritenere probabile che la malattia abbia un’origine multifattoriale, data dalla combinazione di fattori multigenici e ambientali sfavorevoli.

Sintomi

La sintomatologia tipica della malattia di Parkinson comprende tre aspetti cardine: l’acinesia/ipocinesia (corrispondenti, rispettivamente, a una riduzione e a un rallentamento dei movimenti volontari), l’ipertono (ovvero l’aumento del tono muscolare) e il tremore.

I sintomi possono anche non essere tutti presenti, soprattutto nelle fasi iniziali e, spesso, è proprio il sintomo ritenuto più caratteristico, il tremore, a mancare in un paziente su tre.
Il sintomo più costante è, invece, la riduzione e il rallentamento dei movimenti volontari automatici, come dondolare le braccia mentre si cammina.

Nelle persone con malattia di Parkinson quasi tutti i movimenti dai quali dipende la mimica facciale si riducono notevolmente per numero e intensità e, con il tempo, il paziente assume un’espressione fissa, detta facies figée.
A volte, i familiari interpretano questo tipo di espressione come la manifestazione di una profonda tristezza, ma in realtà si tratta di un fenomeno legato all’acinesia.

Anche la scrittura, il movimento di trascinamento della penna sul foglio e le caratteristiche della grafia sono altamente automatizzate e vengono alterate dalla malattia di Parkinson.
Ne consegue che la grafia di chi ne soffre è tipicamente molto piccola (micrografia), e molto diversa da quella che la persona aveva prima di ammalarsi.

Un altro sintomo tipico della malattia di Parkinson, legato al venir meno di un automatismo, è la difficoltà a iniziare la deambulazione.
Quando il paziente decide di spostarsi da un punto all’altro di una stanza fatica a operare la serie di piccoli movimenti automatici necessari per fare il primo passo, come spostare l’asse del corpo in avanti, portare in avanti la gamba, flettere il ginocchio.
Una volta iniziata la deambulazione, invece, il problema non è più muovere le gambe, ma smettere di farlo.
Ciò fa sì che la camminata di chi soffre di malattia di Parkinson sia tipicamente concitata, come se si affrettasse per raggiungere la destinazione, e difficile da interrompere. Spesso, per riuscire a fermarsi, è necessario incontrare un ostacolo.
Inoltre, il venir meno degli automatismi impedisce al paziente di operare, durante la deambulazione, gli aggiustamenti posturali essenziali per il mantenimento dell’equilibrio e il riposizionamento continuo del baricentro, con conseguente aumento del rischio di cadute, quasi sempre all’indietro.

Il secondo sintomo chiave, l’ipertono, comporta una resistenza nei movimenti passivi di flessione degli arti e del busto: la persona con malattia di Parkinson tende a piegare il busto in avanti, con le gambe e le braccia leggermente flesse, con una progressiva riduzione della capacità di movimento muscolare che, con il tempo, determina una grave invalidità motoria.

Il tremore è un sintomo importante della malattia di Parkinson, anche se non sempre presente: si tratta di un tremore grossolano, evidente, ampio e riguarda soprattutto l’estremità delle braccia. Le mani eseguono movimenti ripetitivi simili al “contar soldi” o “far pillole”. Un’altra zona tipicamente colpita dal tremore è la mandibola, che si muove come in una sorta di finta masticazione.
Il tremore è di tipo posturale, evidente soprattutto quando viene mantenuta una posizione fissa, e si manifesta di più quando le braccia sono a riposo. Durante un movimento volontario, come prendere in mano un bicchiere, invece, il tremore può anche scomparire.

I sintomi peggiorano inevitabilmente con il passare del tempo, ma la velocità di progressione della malattia varia molto da paziente a paziente. In alcuni casi, si può osservare una degenerazione rapida, nell’arco di qualche anno, mentre in altri l’evoluzione è più lenta e può durare anche quindici o venti anni.

Il progressivo aumento dei periodi di rigidità muscolare e il mantenimento di posture forzate può associarsi a dolore.

In circa un paziente su cinque, la progressione della malattia si accompagna a un declino cognitivo più o meno significativo, che in alcuni casi può portare a una vera e propria demenza (anche favorita dall’avanzare dell’età).

Diagnosi

Dal momento che non esiste un marker biologico specifico, cioè un parametro caratteristico rilevabile con gli esami di laboratorio, la diagnosi della malattia di Parkinson resta principalmente clinica e basata sulla valutazione dei sintomi caratteristici e sulla storia medica del paziente, nel contesto di un’attenta valutazione neurologica.

Nelle fasi iniziali, la diagnosi specifica può non essere semplice a causa della somiglianza delle manifestazioni con quelle di altre forme degenerative che affliggono il sistema neuromotorio, ma con l’evolvere della malattia il quadro clinico si delinea in modo più preciso e non lascia spazio a grossi dubbi interpretativi.

Da alcuni anni, a supporto della diagnosi clinica, possono essere utilizzate alcune tecniche di imaging cerebrale come la TAC, la risonanza magnetica, la PET o la SPECT, utili soprattutto quando la valutazione neurologica lascia un margine di incertezza e per escludere altre possibili alterazioni cerebrali all’origine dei sintomi motori riscontrati.

Tra gli stili di vita

La malattia di Parkinson viene affrontata nella maggioranza dei casi con farmaci che agiscono sul sistema dopaminergico e, in pazienti selezionati, con la chirurgia.

La dopamina non può essere somministrata direttamente perché, a causa della sua struttura chimica, non è in grado di oltrepassare la barriera ematoencefalica, il filtro che seleziona le sostanze che hanno il permesso di passare dal sangue al cervello.
Questo ostacolo, può essere superato perché il cervello è in grado di produrre la dopamina a partire da un suo precursore, la levodopa (L-Dopa), che può oltrepassare la barriera ematoencefalica.

Per evitare che gli enzimi in grado di trasformare la L-Dopa, presenti in diversi punti dell’organismo, la degradino prima che arrivi al cervello e sia trasformata in dopamina, la levodopa viene somministrata insieme al carbidopa.
In genere, prima di iniziare a somministrare i farmaci a base di L-Dopa o in un secondo tempo in associazione a quest’ultima, vengono utilizzati i cosiddetti “agonisti della dopamina” (bromocriptina, lisurude, cabergolina, pramipexolo, ropinirolo ecc.), ossia sostanze che mimano gli effetti fisiologici della dopamina e che potenziano l’effetto della L-Dopa.

Altri farmaci utili sono gli inibitori delle catecol-metil-transferasi (COMT), come tolcapone e entacapone, che hanno il ruolo di inibire un gruppo di enzimi in grado di trasformare la L-Dopa in un composto diverso dalla dopamina, il metil-dopa, inutile ai fini della terapia antiparkinson.
Spegnendo le COMT, quindi, una maggior quantità di L-Dopa può raggiungere il cervello ed essere trasformata in dopamina.

Altri farmaci che possono essere utili per migliorare i sintomi della malattia di Parkinson sono alcuni antidepressivi (usati anche in persone non depresse per gli effetti favorevoli sul tono muscolare), amantadina e alcuni farmaci anticolinergici.

Anche la dieta, può avere un ruolo in supporto alla terapia farmacologica, pur non essendo di per sé terapeutica.
In particolare, la dieta mediterranea, con una netta prevalenza di carboidrati sulle proteine sembra vantaggiosa perché le proteine, soprattutto di origine animale, sono ricche di amminoacidi che, all’interno dell’organismo, vengono trasformati attraverso le stesse vie biochimiche usate dalla dopamina e possono, quindi, ostacolarne la produzione.

Sul fronte chirurgico, la principale tecnica introdotta in pratica clinica ormai da diversi anni è stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation, DBS), basata sull’impianto di microelettrodi nella regione del cervello (talamo) che, normalmente, verrebbe stimolata dalla dopamina.
Con la stimolazione talamica, anziché cercare di riprodurre il messaggio chimico, somministrando precursori della dopamina e/o agenti “potenzianti”, si applica direttamente lo stimolo elettrico che normalmente verrebbe evocato dal legame della dopamina al suo recettore sul neurone bersaglio.
L’impulso di corrente viene somministrato attraverso elettrodi microscopici inseriti nel centro del cervello e collegati a un generatore, anch’esso di dimensioni ridottissime, collocato sottocute a livello della spalla.

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